La preghiera del dubbio di Ida Mitrano

La preghiera del dubbio
di Ida Mitrano

La  pittura di Franco Ferrari è, senza dubbio, complessa. La collocazione mentale dell’artista è già manifesta nel suo affermare che “la pittura è una specie di buco nero, dove ci si può perdere o trovare”. Ma se questa è la sua condizione, è nel contempo anche un’indicazione di senso per una prima considerazione: il gesto pittorico in Ferrari ha motivo d’essere solo se capace di restituire la problematicità della ricerca che sottende al suo esistere e se sa assumersi la paternità degli accadimenti sulla tela che sfuggono al suo controllo.  Spostare l’attenzione oltre il soggetto dell’opera diviene allora il presupposto necessario per tentare una decodificazione che non poggi sul già codificato, perché l’artista non è interessato a rappresentare l’evidente, a rimanere ancorato ai propri punti fermi, quanto invece a spingersi verso le zone d’ombra, a percorrere territori a lui oscuri. Ma non c’è presunzione in tutto questo, non c’è l’aspettativa di farsi tramite di verità. Al contrario, colpisce questa sua umiltà nell’essere consapevole di non sapere, come egli stesso dichiara, nella certezza, però, che qualsiasi contenuto non potrà prescindere dal farsi stesso della pittura. 
Descrivere, dunque, l’opera di Ferrari o tradurla in racconto non ha alcun senso. Se non si comprende che essa è il risultato della continua interazione tra il gesto pittorico e il concretizzarsi della propria necessità sulla tela, non si coglie neanche la sottile drammaticità di cui questa pittura è permeata. Ma se da un lato il vuoto prodotto dalla perdita dei valori sui quali prima si fondava la società crea smarrimento, dall’altro questa condizione radica nell’artista la ferma convinzione che il suo gesto potrà acquisire nuovamente forza creativa se saprà farsi veicolo responsabile della complessità della coscienza e, nel contempo, di un imponderabile contenuto dell’opera, capace di autodeterminarsi.  Guardarsi dentro diviene allora atto dovuto. Ferrari lo sa bene. Per questa ragione, vive la pittura come l’incontro con l’ignoto, come una sfida con se stesso. Di fronte alla tela ogni volta ricerca il proprio oggetto interno, per riappropriarsi di un senso di possibilità, di un quid non codificato che si coglie in un segno apparentemente marginale o che nasce da una defaillance. Nella meticolosità della pittura, nella definizione della struttura spaziale, nel ripetersi del soggetto, quel segno è atteso, perché  il suo accadimento genera qualcosa che prima che prima non c’era.
La pittura di Ferrari è dunque lontana dall’essere accademica. Egli opera da sempre nell’ambito della figurazione, convinto che l’arte debba affermare e che l’artista debba assumersi fino in fondo la responsabilità delle sue dichiarazioni. Ma, alla luce di quanto finora evidenziato, di cosa questa pittura è testimone? Di un disagio, senza dubbio. Queste opere lo esprimono chiaramente. Registrare il malessere del proprio tempo è una priorità per l’artista. D’altra parte, lo è sempre stata. Sebbene oggi sia venuta meno la connotazione ideologica, la sua arte rimane, pur sempre, un’arte d’impegno. E non è un caso, infatti, che sia un pittore difficile, soprattutto quando non cede al tentativo di celare lo smarrimento di fronte ai turbamenti del vivere. E cos’è quell’evidenziare le figure in primo piano, quell’incastonarle entro fondali scenografici collocandole  davanti a finestre dalla chiara valenza simbolica, se non inchiodare se stesso e l’altro, o l’altro sé? C’è qualcosa di sacro in questo. Non certo per le sembianze alate delle figure, perché quei corpi mutati più che il simbolo di una trasformazione, sono l’icona di una condizione esistenziale irrisolta. Piuttosto per la fiducia nell’umano e nelle sue contraddizioni come causa prima della vita. E se quelle figure alate sono proprio l’espressione massima di una contraddizione in atto, ogni esitazioni, ripensamento, incertezza del gesto pittorico appaiono a loro modo, invece, contraddizioni implicite, di cui la materia conserva la memoria come tracce di dinamismi latenti generativi del nuovo.
Ha ragione, allora, Ferrari ad affermare che “l’arte insegna a pensare”.
Roma Gennaio 2010

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