Riflessioni sulla pittura di Franco Ferrari in forma di lettera di Ennio Calabria


Riflessioni sulla pittura di Franco Ferrari  in forma di lettera
Ennio Calabria

Caro Franco, 
a proposito di una tua precedente mostra dicevo che nei tuoi quadri c’è qualcosa che produce un “senso di colpa” in chi li guarda.  E’ come se in essi si svolga un rito, una simbolica rappresentazione in cui e da cui siamo giudicati per colpe che ignoriamo.
Ed ora davanti a queste opere mi viene da chiederti: “ma di cosa stai parlando?”
Cosa ci dicono questi mille spezzoni, inquietanti sintassi di un indefinibile processo di “transumanza”?
Di cosa parlano queste iconografie di misteriosi altari di fronte ai quali si inginocchiano inquietanti vittime ufficianti e si sacrificano ambigue protesi dell’invisibile? Di cosa parlano queste ali spezzate, questi involucri ramificati dalle infinite arterie di un organismo mutante contratto nella smorfia che un destino sempre spaesante gli impone?
E’ come se qualcosa di noi che non sappiamo, forse un tic, forse qualcosa che nel corso della febbre alta sentiamo sotto la pelle, prendesse il sopravvento sulla normale percezione di noi stessi.  La figura umana è handicappata dentro la spietata coercizione di un burattinaio che ha altri progetti ai quali la piega, la rende penosa, mentre eternizza la sua struggente esclamatività.
C’è dunque un progetto parallelo al nostro?  E che ne è il soggetto?
“quell’oltre il dato “ che un artista persegue è forse l’intuizione di un punto limite nel quale il nostro progetto, la nostra percezione si infrangono dinanzi ad un mistero più grande di cui noi siamo parte?
O forse, caro Franco, le tue immagini cercano con tensione di rappresentare questa sghemba posizione dell’uomo tra tempo e atemporalità tra progetto e … improgettualità.
Io credo che tu sia unico in questa affannosa ricerca.
C’è qualcosa di universale nella tua angosciosa domanda.
E’ strano, ma a volte per ragioni misteriose uno viene investito da una percezione che negli altri è marginale, vaga.
Io non trovo le parole per dire la profondità della tua percezione del mistero dell’esistenza umana. Voglio solo dirti di proseguire in questo immane obiettivo, di continuare a contestualizzare il tuo sforzo in una sempre più attuale ricerca di codici e di sintassi capace di rappresentare i “sintomi”  di una presenza “altra” e destabilizzante che alloggia in noi. In uno scritto precedente questa presenza l’avevo definita “L’alieno spirito”.
Non so, ma si tratta di una volontà in noi  ma estranea a noi, speculare ai nostri pensieri, derivata da essi e dalle nostre azioni ma tuttavia autonoma e talmente imperiosa da riqualificare il nostro “senso” in un progetto che ci trascende.
La tua pittura eleva la voce del corpo a modello di una intelligenza che comprende e supera la nostra consapevole intelligenza.
Nella sua splendida presentazione della tua precedente mostra di ”Casale dei Monaci” a Ciampino, Italo Evangelisti scriveva di te: “la tua è un’indagine che vuole recuperare il rapporto tra realtà e verità rintracciato dove solo può essere oggi nella sua determinazione storica, tra l’imperfezione dell’ordine e la perfezione del caos”  e poi “non la materia come meta linguaggio dell’inespresso, ma come metamorfosi, appunto, della materia in soggetto”.
Io, invece, per quella stessa mostra scrivevo: “è un po’ come quando subiamo un’operazione e ci si consente di vedere i nostri organi interni, oggettivati fuori di noi su uno schermo.  In quel momento si prova un ansioso senso di esclusione da noi stessi, ma anche una sorta di nostra frustante inadeguatezza perché i nostri organi oggettivati fuori di noi sembrano far parte di una cultura e di un progetto che ci trascendono”.
Queste considerazioni fanno di te un pittore che si misura con lo sconosciuto ma soprattutto fanno di te un ricercatore la cui incessante ricerca è fortemente imperniata entro i  presenti mutamenti in atto.
Ho usato volutamente il termine “mutamenti” perché di questi si tratta e non di momentanee patologie della società. Si va modificando l’immagine dell’uomo e si è già modificata la natura del suo pensiero.
Esiliate le dimensioni introspettive, si è interrotta la relazione tra esse e il mondo esterno che collassa in un unico pensiero che ha perso al suo fondamento quel dualismo oppositivo che gli consentiva autonomia dal “dato”.
La vita in sé, nel suo farsi, legittima un pensiero povero che le è sottostante, che ne è al servizio.
E’ come se il corpo avesse fisiologizzato  il pensiero dando vita ad una sorta di unità autoreferenziale.
Ecco, Franco tu sembri riidentificare quel “dualismo” perduto e scavando “nell’unità” del corpo, dichiari che l’evidenza del corpo si fonda sulla sua stessa negazione e che una forma per essere identificabile non può non essere l’antitesi dell’indistinto.
Molti studiosi laici o santi in passato si sono posti il grande problema “dell’uno” che azzera il pensiero e del “due” inteso come quel dualismo oppositivo che fonda l’evoluzione della vita nella storia e che dà origine ad un pensiero capace di identificazione dei fenomeni e dei valori che essi assumono. Ma oggi i mutamenti in atto per l’esclusione di una delle due polarità, quella dal punto di vista introspettivo e sovrastrutturale, per il tasso crescente del relativismo che relativizzando, ormai in tempo reale, ogni certezza, rinvia alla vita stessa nel farsi della sua mera fisica esistenza, i mutamenti, dicevo, riportano all’uno in sé senza percezione della sua antitesi.
Credo che per questa ragioni solo accennate la tua ricerca è tutt’altro che metafisica, ma necessaria perché si impernia nei cocenti problemi che il nostro tempo ci impone.

Roma Dicembre 2009

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