S/prigioni di Marcello Carlino

S/prigioni
di Marcello Carlino

E talora trapelano teste come antropomorfe, coperte da veli che su di esse si spanciano come per effetti di controvento. E se anche ti dicono di enigmi, di spostamenti surreali (e magari le associ alle mutazioni aliene delle coppie di Magritte in scene di famiglia in un interno), il senso che di esse persiste e il rinvio intertestuale che da esse ravvisi più tenace concernono i prigioni di Michelangelo: corpi trattenuti e tuttavia tesi a scoprirsi, frenati e però in procinto di sprigionarsi, imbozzolati e ciononostante caricati per uno slancio, per un progetto di libertà. Dalla voltura in forme umane dei corpi, e dalle rimembranze iconografiche che ne vengono autorizzate, comprendi che qui di un’uscita verso utopia, verso un altrove libero e “slegato”, le tele raccontano con una battente insistenza nuova, un’insistenza che riferisce, di suo, della difficoltà dell’uscita, del suo essere faticosa e inibita speranza, del suo distopico ripiegarsi in bozzoli che si rifanno, in fasce di contenzione che avvolgono di robustissimo velo. Frattanto hai per certo che non è solo espansivo umano volere quello inscenato (metafora anche di un nascere o di un rinascere); piuttosto è lo slancio più che umano della materia che diviene qui un leitmotiv, che raccoglie e convoglia un’energia immanente alle forme viventi e che rafforza ed espande, per richiami analogici, l’espansivo umano volere: non a caso uno spazialismo dinamico intelaia la rappresentazione e il linearismo e il raggismo, di quando in quando recuperati a forme riconoscibilmente geometriche, si condensano in un dinamismo plastico, esplosivo e proiettivo, mentre la preponderanza astratta dei composti di forme e colori, di quando in quando affacciata su anamorfosi parafigurali e umano-animali, promette di inseminare e impollinare a distanza come sotto la spinta centrifuga e dilatativa di un big bang rinnovatosi. E ciò sebbene la reiterazione del gesto centrifugo-esplosivo ammetta processi contemporanei di reversibilità e includa il contrappasso di ritorni centripeto-implosivi.
Ecco l’impegno di far essere i segni dell’espansione (della crescita vitale, della conquista di uno spazio di autodeterminazione e di libertà, della possibilità di pensare il futuro) individua il significato, anche civile e specificamente politico, della pittura di Franco Ferrari, un significato che s’arricchisce della consapevolezza della difficoltà di “farli essere”, quei segni. Perciò gli atti di una duplicità (e, attraverso la duplicità, di una trascorrenza che non ha posa) sono depositati in questi quadri: una duplicità di cui il bianco e il nero prevalenti, in dialettica tra loro, si rendono attori. La geometria e il caos, il nuovissimo senza precedenti e l’antichissimo di possibili graffiti da arte etnica, l’astratto e il concreto, il gestaltico e il ricomposto in procedure controllate, l’informe e la figura, il ridondante e l’essenziale riassunto come in  una catena genomica  si tendono in trame binarie di relazioni. E sotto una dominanza di luce (riluce anche il nero di Franco Ferrari) che ribadisce la volontà di non smettere un ottimismo della volontà. Che è quanto deve restare nonostante tutto.
 Frosinone  20 novembre 2009

Nessun commento:

Posta un commento